#004 - Non temo Spotify in me, ma Spotify in sé
Continua la riflessione attorno al tema dello streaming, di come viviamo nelle piattaforme e come resistere a loro meccanismi di controllo
È notizia di ieri che Spotify intende lanciare un servizio di messaggistica istantanea per rendere la sua piattaforma ancora più social. Come fanno giustamente notare le persone che hanno commentato la notizia, si tratta dell’ennesimo tentativo per sviare l’attenzione rispetto a problemi ben più cruciali della piattaforma e dell’intero modo in cui fruiamo musica negli anni Venti.
Se avete letto l’ultima puntata di TRACCE▶ sapete come il tema mi sta molto a cuore e partendo da quelle riflessioni, ho messo in fila una serie di altri spunti.

I contro di Spotify sono sotto gli occhi di tuttə. In primis, il sistema di redistribuzione economica, che porta la maggior parte dellə artistə a scrivere e produrre musica secondo logiche da prima rivoluzione industriale, diventando dei lumpenmusiker che lavorano a cottimo per pochissimi spiccioli. Poi, il sistema delle playlist che sulla lunga porta a una sostanziale omogeneità della scrittura e della produzione, creando una sorta di spotifycore: canzoni tutte uguali, prodotte allo stesso modo, seguendo le stesse logiche, che catturano l’attenzione per quel che basta per non skippare (Spotify riconosce l’ascolto dopo 30 secondi).
Stanno uscendo sempre più articoli che, tra le righe, rimpiangono l’epoca della pirateria. Recentemente anche io mi sono trovato a pensare al periodo storico del file sharing illegale come un momento di liberazione e, al tempo stesso, di uso attivo del mezzo per rovesciare le logiche di consumo: non più broadcast top down (l’emittente mi dice cosa ascoltare), ma grassroots bottom up (io decido dove indirizzare il mio sguardo, la mia attenzione e — in un secondo momento — i miei soldi). Se è vero che dispersə nell’azzurro mare delle playlist, delle raccomandazioni e dell’infinita scelta rischiamo di passare più tempo in un’attesa passiva o in un ascolto inerziale, allora recuperare una certa “agency” sul proprio consumo culturale diventa una piccola strategia di resistenza. Ai tempi della pirateria l’ipotesi di avere a disposizione un archivio potenzialmente infinito di tutta la nostra cultura era elettrizzante. Un sogno. Un’utopia. Adesso che ce l’abbiamo, questo archivio, ci mancano gli strumenti o il tempo per navigarlo.
Quando ho letto il libro di Tiziano Bonini e Paolo Magaudda La musica nell'era digitale (il Mulino 2023) ho avuto la conferma di una mia vecchia intuizione. La musica ha perso centralità nel discorso collettivo perché è sempre stata un’arte “di accompagnamento” per la maggior parte delle persone. I due autori riportano il dato piuttosto inquietante per cui solo il 2% degli ascolti al mondo sia consapevole. (Se leggete questa newsletter è probabile che vi siate sentiti parte di una minoranza molte volte nella vostra vita. Ecco il dato che vi mancava per sentirvi ancora più parte di una minoranza. Prego, non c’è di che.) Spotify ha semplicemente messo questo dato a sistema in modo misurabile, analizzabile, capitalizzabile e senza apparente possibilità di hackeraggio.
Il grande accesso non è quindi sinonimo di grande consapevolezza. Anzi. A venir meno per l’industria discografica — grande o piccola che sia, ma più generalmente quella grande — non è l’acquisto da parte della persona appassionata, ma l’acquisto casuale di chi ascoltava solo le Top 40 e comprava 2-3 dischi l’anno di chi era primo in classifica. Ed erano milioni di persone in giro per il mondo. Noi modi per redistribuire li troviamo (quasi) sempre.
Usando le piattaforme nel modo più attivo possibile — credo di aver ascoltato playlist solo quando le canzoni della mia band ci finivano dentro — non temo tanto “Spotify in me” quanto “Spotify in sé”. Le piattaforme non sono neutre (un errore che ho fatto anche io più volte). La pirateria aveva una missione: rendere il materiale culturale divulgabile creando sì un danno economico, ma a fronte di un vantaggio sociale molto più ampio che si traduceva in altre forme di economia. Più piccole, ok, ma su cui sarebbe stato interessante provare a lavorare anziché chiudersi nel fortino e difendere le posizioni acquisite. Questo resta un altro di quei “what if” da un altro mondo possibile.
Lo “Spotify in sé” vuol dire far passare l’idea che la musica abbia un valore di pochi centesimi — dove paradossalmente se la vuoi rubare con il download illegale, le dai un valore molto più alto — e che sia interscambiabile e con una scadenza immediata. Che ogni mood sia etichettabile e ascrivibile dentro cornici di senso che diventano playlist e che dettano una palette emotiva. Che l’ascolto sia davvero un’esperienza passiva dove possiamo solo schiacciare play. Il tutto per il guadagno di pochi che gestiscono l’infrastruttura e non chi la alimenta.
Parafrasando David Graeber, le piattaforme sono una nuova burocrazia che controlla il nostro stato emotivo nel capitalismo della sorveglianza (quella che il filosofo à la page che citano le persone pigre, Byung Chul Han, chiama “psicopolitica”) agendo sui nostri stati mentali e sulle nostre reazioni.
Qui non voglio dare soluzioni o proporre alternative ma contribuire a un dibattito che merita un livello più alto che non accettare vs boicottare. Il primo gesto politico che possiamo fare parte proprio dalla consapevolezza di come il sistema si sia trasformato e come gli ecosistemi mediatici siano evoluti attorno a noi avvolgendoci in una mediasfera ad personam ma che agisce come gigantesco meccanismo di controllo e consumo passivo.

Vi prometto che la prossima puntata di TRACCE▶ non sarà su Spotify ma il tema mi sta parecchio a cuore, come immagino anche a voi. Tuttavia, questa newsletter è uno spazio di discussione aperto a tuttə e se volete lasciare un commento potete cliccare qui:
FAST TRACCE▶
Ho notato solo adesso che un’altra band degli anni Novanta britannici sta per fare un tour che non so se possiamo ascrivere alle reunion o ai grandi ritorni. Si tratta dei Gene e se non li conoscete il disco da cui partire è Olympian del 1995 (che purtroppo non c’è su Bandcamp)
Bebo Guidetti sta pubblicando sul suo blog una serie di riflessioni molto utili e che dialogano con quelle che escono su questa newsletter. Qui ad esempio affronta il tema dell’Intelligenza Artificiale e la musica.
Uno dei miei generi letterari preferiti è scrivere di band inglesi (ma dai, non lo avremo mai detto). Su Sentireascoltare è uscita la mia recensione retrospettiva su Pills 'n' Thrills and Bellyaches degli Happy Mondays.
BONUS TRACCE▶
Un disco:
È uscito il nuovo disco dei Superchunk, una delle mie band di riferimento di tutti i tempi. Si tratta del gruppo fondato da Mac McCaughan e Laura Ballance, i fondatori della Merge Records, semplicemente una delle etichette che hanno definito il modo in cui parliamo, ascoltiamo e viviamo l’indie contemporaneo. Questo nuovo lavoro si chiama Songs in the Key of Yikes e conferma il buono stato di salute di una band che ha quasi quarant’anni di attività alle spalle e ha perso due membri storici (Laura, bassista, non suona più live con la band e il batterista storico, Jon Wurster). Canzoni veloci, melodiche, dallo spirito punk e dalla realizzazione puramente indie. Forse manca un pezzo che ti faccia saltare dalla sedia, ma per ora va bene così e spero di poterli rivedere presto dal vivo.
Un libro:
Non è un libro musicale, ma è un libro necessario per questo periodo storico e giorno dopo giorno diventa di sempre maggiore, bruciante, urgenza. Pensare dopo Gaza di Franco “Bifo” Berardi (time0 2025). Un libro che parte dal celebre assunto base di Adorno per cui dopo Auschwitz non sarebbe più stato possibile scrivere poesia e lo aggiorna per metterci davanti al fallimento di un’idea di mondo, della ragione, della democrazia e di come il mostruoso sia a un passo da noi. Anche in questo caso è un atto di resistenza necessario che parte dalla consapevolezza e dalla riflessione teorica che poi dobbiamo essere noi a mettere in pratica.
(Non metto link agli shop online perché vi suggerisco di andare a prendere i libri nelle vostre librerie di riferimento.)
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